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Valorizzare gli scarti alimentari del pane in birra: intervista a Biova

Franco Dipietro, co-fondatore di Biova, racconta come utilizzare l’Economia Circolare e l’Upcycling per la trasformazione degli scarti di pane in birra

Simone Tabellini per Sfridoo

Simone Tabellini

Green Marketer

Nella grafica è presente Franco Dipietro, cofondatore di Biova, e il titolo dell'articolo "Come valorizzare gli scarti alimentari del pane in birra: intervista a Biova"

Nel vasto mondo dell‘Economia Circolare, esistono figure e realtà che brillano per la loro determinazione nel dare un nuovo significato a ciò che molti considerano “scarto”. Franco Dipietro, co-fondatore di Biova, è una di queste figure.

Con la sua startup, ha intrapreso un viaggio alla riscoperta del valore nascosto negli scarti del pane, trasformandoli in soluzioni sostenibili e di valore per l’industria.

Abbiamo avuto l’opportunità di parlare con Franco per scoprire di più sulla sua visione, le sfide affrontate e come l’upcycling sta rivoluzionando il settore agroalimentare.

Ciao Franco, presentati brevemente. Chi sei e che ruolo svolgi all’interno della startup?

Ciao a tutti, sono Franco Dipietro, uno dei due fondatori di Biova Project, una startup innovativa nata a Torino nel 2019. La nostra missione è quella di combattere lo spreco alimentare, creando prodotti alimentari a partire da quello che molti considerano surplus, scarti o invenduti della filiera agroalimentare.

Abbiamo iniziato con un focus particolare sul pane invenduto, che rappresenta uno degli alimenti più sprecati, con circa 1300 tonnellate al giorno, equivalenti a un terzo della produzione italiana.

La nostra sfida iniziale è stata quella di capire come recuperare questi sprechi, che sono diffusi su tutto il territorio, e poi come conservarli e trasformarli in maniera adeguata per creare un nuovo prodotto.

Siamo poi entrati nel campo della birrificazione, scoprendo che la birra è un ottimo sistema per recuperare il pane e altri amidacei.

La birra è tradizionalmente prodotta attraverso l’ammostamento di diversi cereali, che rilasciano zuccheri nell’acqua, successivamente fermentati.

La nostra intuizione è stata quella di sostituire una parte delle materie prime tradizionali con pane. Con 150 chili di pane riusciamo a fare 2500 litri di birra artigianale, risparmiando il 30% di malto d’orzo.

Questo è stato solo l’inizio della nostra avventura con Biova, un progetto che si inserisce perfettamente nell’ottica dell’Economia Circolare e della Sostenibilità.

Puoi descrivere il processo produttivo attraverso cui il pane invenduto diventa birra?

Il processo produttivo di Biova inizia dal recupero del pane invenduto, che potrebbe sembrare semplice, ma in realtà non lo è.

Tradizionalmente, questi invenduti, specialmente il pane, vengono nella maggior parte dei casi cestinati.

Per affrontare questo spreco, Biova ha stabilito accordi e partnership con produttori e distributori, sia della grande distribuzione organizzata (GDO) che del settore della ristorazione (HORECA), per recuperare le quantità necessarie di pane invenduto.

Una volta raccolto, il pane viene trasportato, grazie alla nostra logistica proprietaria, a un centro di nostra costruzione, dove il processo diventa più tecnologico e innovativo.

Qui, il pane viene pesato, tracciato, essiccato e trattato per aumentarne la durata.

Successivamente, viene lavorato in modo da renderlo adatto per la birrificazione.

Questa è certamente la parte più innovativa del processo, poiché si tratta non solo di recuperare, ma anche di stoccare il pane in modo adeguato per conservarlo e renderlo fruibile per la produzione di birra.

Una volta completata la fase di recupero e trasformazione in una nuova materia prima, procediamo alla birrificazione.

Da questo punto in poi, il processo non presenta particolari innovazioni tecnologiche: il pane recuperato viene semplicemente accostato agli altri ingredienti tradizionali della birra.

Inoltre, il nostro modello di business, dal procurement alla distribuzione, assume una forma circolare.

Spesso, il prodotto finito viene distribuito dagli stessi fornitori che ci hanno fornito il surplus di pane.

Questo processo lo attuate anche sui vostri scarti di produzione?

È importante aggiungere che lavoriamo anche sui nostri scarti di produzione.

Riusciamo a recuperare il sottoprodotto della birrificazione, noto come trebbia o malto d’orzo esausto, che nel nostro caso include anche residui di pane o altri amidacei.

Nonostante sia una materia molto fermentescibile e difficile da lavorare, riusciamo a fermarne la fermentazione e il deterioramento, utilizzandola come ingrediente per una linea di prodotti da forno. Abbiamo già creato e lanciato sul mercato ReSnack, un prodotto derivante dal sottoprodotto delle nostre birrificazioni, esempio perfetto di upcycling: trasformare ciò che è tradizionalmente considerato uno scarto in qualcosa di nuovo e di valore.

In sintesi, il nostro processo non solo trasforma il pane invenduto in birra, ma va oltre, esplorando le possibilità dell’Economia Circolare e della trasformazione sostenibile, dimostrando che gli scarti possono assumere nuove forme e nuovi usi.

Quali sono state le sfide nell’adeguare il processo produttivo alle normative riguardanti la sicurezza alimentare?

Le sfide in questo senso sono state significative.

Inizialmente, anche la legislazione era un ostacolo, poiché non era chiaro come gestire il recupero di surplus o avanzi alimentari.

La legge del ministro Gadda, la cosiddetta legge del buon samaritano, ha aperto la strada a queste operazioni, ma con distinzioni importanti tra la ridistribuzione benefica e il riutilizzo a scopo di profitto.

Come azienda profit, Biova Project ha dovuto elaborare un sistema per acquisire la proprietà degli alimenti in surplus, acquistandoli e diventando proprietari dei beni stessi.

Le norme sulla qualità, tracciabilità e certificazione, come la ISO 22000, hanno presentato altre sfide.

Biova era una novità per i certificatori, non essendo né produttori tradizionali né distributori.

Tuttavia, grazie a un forte impegno nella tracciabilità, Biova è riuscita a ottenere la certificazione ISO 22000.

Ogni pezzo di pane che entra nel loro sistema viene tracciato per provenienza, lotto, momento d’ingresso, stazionamento e momento di uscita, assicurando un controllo dettagliato in caso di problemi.

In termini di riduzione dello spreco alimentare, quali risultati ha raggiunto Biova fino a ora e quali sono gli obiettivi futuri?

Biova ha fatto significativi passi avanti in termini di riduzione dell’impatto ambientale e dello spreco alimentare.

Il nostro obiettivo principale è sempre stato il recupero, considerandolo un indicatore fondamentale del successo del nostro business, anche a livello di profittabilità.

Nel nostro primo anno, abbiamo recuperato circa 400 kg di pane, che già allora sembrava un traguardo notevole.

Oggi siamo riusciti a raccogliere 22 tonnellate di pane, un risultato che non solo parla di quantità, ma si traduce in una serie di benefici collaterali significativi.

Oltre al recupero di pane, stiamo contribuendo a una riduzione dell’uso dell’energia necessaria per produrre questi beni, evitando che vada sprecata.

Inoltre, il non utilizzo di nuova materia prima comporta una riduzione della pressione sulla filiera agroalimentare, con benefici che si estendono a vari ambiti.

Questo si traduce anche in un risparmio per la spesa pubblica, in quanto riduciamo l’utilizzo di sistemi di smaltimento, discariche, trasporto e logistica legati alla gestione di un volume così elevato di scarti.

Avete calcolato l’impatto dei vostri processi di lavorazione?

Inoltre, abbiamo effettuato un Life Cycle Assessment, calcolando il nostro Carbon Footprint specifico per il processo di birrificazione.

Abbiamo scoperto che, rispetto al processo tradizionale, siamo riusciti a risparmiare oltre una tonnellata e 300 kg di CO2 equivalenti.

Questo è stato possibile grazie al recupero del pane e al non utilizzo di materie prime nuove.

Gli obiettivi futuri di Biova sono orientati a incrementare ulteriormente il volume di recupero, estendere i nostri impatti positivi sull’ambiente e continuare a innovare in modi che possano contribuire attivamente alla riduzione dello spreco alimentare e all’ottimizzazione dell’uso delle risorse.

Avete avviato una campagna di crowdfunding, ci puoi raccontare quali sono i risultati che state ottenendo?

Come parte fondamentale della nostra strategia aziendale, abbiamo avviato una campagna di crowdfunding per accelerare la crescita di Biova.

Al centro delle nostre operazioni ci sono i cosiddetti “Surplus Treatment Units”, laboratori alimentari con magazzino, che abbiamo progettato appositamente per il trattamento di surplus e scarti alimentari.

Questi centri ci permettono di agire efficacemente in un determinato raggio territoriale, evitando che i trasporti prolungati di scarti e surplus annullino i benefici ambientali del nostro lavoro.

Il nostro piano di crescita si basa sulla replicazione di questi centri in diverse aree, ampliando così la nostra operatività e, di conseguenza, il nostro business.

Che ruolo hanno questi “Surplus Treatment Units” all’interno della vostra strategia?

L’obiettivo principale della raccolta fondi è proprio quello di aprire nuovi centri di recupero.

Finora, con la campagna di crowdfunding, abbiamo raccolto quasi mezzo milione di euro, avvicinandoci al nostro obiettivo minimo che ci permetterà di realizzare un nuovo centro, sostenere una campagna di sensibilizzazione e rafforzare la nostra rete di vendita.

Il 40% del totale raccolto verrà investito nella realizzazione di nuovi centri di recupero. La parte restante sarà dedicata al potenziamento della rete di vendita e delle attività di marketing e brand awareness, per essere più efficaci e capillari nella distribuzione.

Inoltre, abbiamo un obiettivo più ambizioso che raggiunge il milione e mezzo di euro. Superando questa soglia, potremo non solo costruire un centro, ma addirittura espanderne altri due, accelerando significativamente il nostro processo di crescita.

Guardando al futuro, quali sono i piani di sviluppo per Biova?

Il nostro obiettivo principale rimane quello di ridurre il surplus alimentare attraverso la creazione di nuovi prodotti.

Al momento, stiamo ampliando la nostra ricerca oltre il pane, esplorando altri surplus e nuove opportunità di prodotto.

Per esempio, abbiamo avviato una sperimentazione con gli sfridi di pasta, che ha già portato alla creazione di due tipi di birra fatta proprio dalla pasta – un prodotto assolutamente innovativo e unico nel suo genere.

Stiamo anche esplorando le possibilità con le rotture di riso, cercando di coprire sempre più aree all’interno della filiera agroalimentare.

Un altro punto focale per noi è l’utilizzo e il riutilizzo delle trebbie, un sottoprodotto molto abbondante ma con un profilo nutrizionale estremamente interessante.

State portando avanti progetti specifici con altre realtà?

Abbiamo avviato una ricerca con un’università per sviluppare un semilavorato che trasformi le trebbie in un ingrediente utile per la creazione di prodotti upcycled.

In particolare, ci stiamo concentrando sulla creazione di una pasta di stile italiano fatta proprio dalle trebbie.

La nostra ricerca si estende anche ai soft drink, dai latti vegetali ai drink per tamixology e ai soft drink ready made, sempre partendo da surplus alimentari come pane, pasta, riso, ma anche verdura e frutta di seconda o terza scelta, che spesso non viene venduta nei supermercati.

Continuiamo quindi a espandere sia la base da cui recuperiamo il surplus alimentare sia l’offerta di prodotti finali al pubblico, seguendo sempre la nostra missione nell’ambito dell’Economia Circolare e della sostenibilità.

Quali consigli daresti a un’azienda che vuole intraprendere un percorso nell’Economia Circolare?

In qualità di fondatore di Biova, una startup che è nata con un forte ancoraggio ai principi dell’Economia Circolare, posso dire che il percorso di trasformazione aziendale verso pratiche più sostenibili può sembrare una sfida, ma è fondamentalmente un’opportunità.

Il primo consiglio che posso offrire è di vedere questa trasformazione non come un ostacolo, ma come un’opportunità.

Non si tratta di costi che verranno persi, ma di un investimento per il futuro dell’azienda. Attualmente, è proprio il momento giusto per trasformarsi, per sopravvivere nello scenario economico e ambientale in evoluzione.

Che ruolo gioca, secondo te, l’aspetto culturale?

È importante avere coraggio e non trascurare l’aspetto culturale. La cultura aziendale è il driver principale di qualsiasi trasformazione.

Una volta che si è avviato il cambiamento culturale, seguiranno anche i benefici in termini di profitto. Trasformarsi all’ultimo secondo potrebbe non essere altrettanto efficace; molte aziende stanno già prendendo terreno, avanzando con coraggio in questa direzione.

Quindi, in sintesi: coraggio, visione dell’Economia Circolare come opportunità, e focus sulla cultura aziendale sono gli elementi chiave per intraprendere con successo un percorso di sostenibilità.

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